Recensioni

Il romanzo di formazione mediterraneo di Elsa Morante

Scritto da Caterina Sansoni

copertina2-isola-gSessantesimo anniversario della pubblicazione de L’isola di Arturo

Sono già passati sessant’anni dalla pubblicazione de L’isola di Arturo (1957), di Elsa Morante, ma questo romanzo non sembra mostrare traccia del passaggio del tempo. L’adolescente innamorato del padre e della matrigna è ancora nella sua verde Procida, segue i suoi itinerari consueti, giù tra le spiagge nascoste dove è ancorata la Torpediniera delle Antille, fino a lassù, nella Terra Murata, dove il penitenziario continua ad erigersi misterioso. Nella Casa dei guaglioni si aggira indaffarata e con i ricci scomposti Nunziata, la cui vita scorre in sintonia con i ritmi delle stagioni e delle fasi lunari, mentre gli eterni ritorni di Wilhelm riportano l’estate, chiara e selvaggia come il biondo dei suoi capelli.

Tutto è rimasto immutato sulle pagine del romanzo, forse proprio per l’incantesimo che ne ha determinato la creazione. Nel febbraio del 1957 Elsa Morante così scriveva all’amico e critico Giacomo Debenedetti: « la sola ragione che io ho avuto (di cui fossi consapevole) nel mettermi a raccontare la vita di Arturo, è stata (non rida) il mio antico e inguaribile desiderio di essere un ragazzo » (L’amata. Lettere di e a Elsa Morante, a cura di D. Morante, Torino, Einaudi, 2012, p. 190). La scrittrice si figura (o meglio, si ricorda, vista l’inossidabile legame tra memoria e creatività che caratterizza la sua scrittura) un personaggio che, per raggiungere la maturità, deve superare delle prove. Ma quello che troverà non sarà mai all’altezza della spensieratezza vissuta su quello che lui credeva “un piccolo punto della terra” (Dedica). Siamo di fronte, come recita il sottotitolo, a delle “Memorie di un fanciullo”: il narratore è Arturo stesso, della cui condizione, una volta lasciata l’isola, non sappiamo nulla. La distanza con la quale ricostruisce quegli anni di cambiamento è sia spaziale che temporale, ma non affettiva, quasi custodisse nel cuore il limbo eterno della sua adolescenza.

Siamo di fronte ad un romanzo di formazione? Sì, ma solamente a patto che lo si consideri una struttura aperta in cui conta molto di più un percorso instabile e precario che una meta ben definita (in questo caso, la maturità) e in cui l’esperienza acquisita, anche nei baratri più neri e nei repentini cambi d’umore, sia sempre immersa in una luce mediterranea, perché “nell’isola, anche le cose torbide prendono un colore fantastico, da paradiso terrestre, prima dell’inferno” (appunto autografo per il risvolto di copertina della prima edizione, « Cronologia », Opere, a cura di C. Cecchi e C. Garboli, I Meridiani, Milano, Mondadori, 1988, tomo I, p. LXVI).

Arturo è un gran lettore: il suo linguaggio e la sua immaginazione sono intrisi delle atmosfere dei romanzi di avventura e dei romanzi cortesi, come testimoniano le sue Certezze Assolute, ovvero le leggi che governano la sua quotidianità, e le sue fantasie, nelle quali pirati e imprese eroiche compongono scene degne delle opere di Emilio Salgari. In questo mondo, quell’isola che per lui rappresenta il cosmo intero, l’infanzia di Arturo, orfano di madre, trascorre in solitudine, nell’adorazione completa del padre Wilhelm, sempre indaffarato in viaggi misteriosi.

Tutto cambia, però, con l’arrivo della matrigna, la sedicenne napoletana Nunziata, e attraverso lo scontro definitivo con la figura paterna. La dimensione femminile è una terra inesplorata per il ragazzo, che ha avuto solamente a che fare con la sua cagna Immacolatella e con la natura dell’isola, sorta di utero materno che l’ha protetto e accompagnato fino a quel momento. Nunziata, creatura semplice, ingenua, seppur detentrice di una forza quasi ctonia, in sintonia con i ritmi naturali, gli appare al tempo stesso complice e nemica, gli ispira fiducia e, tuttavia, gli incute quel timore che solo nel confronto atavico tra maschile e femminile può manifestarsi. Allo sconvolgimento provocato da questa convivenza dovrà aggiungersi anche la reductio ad minus della figura paterna, che scenderà dall’altare sul quale Arturo l’aveva collocata per rivelarsi un uomo fragile, alla ricerca di amore, pronto a umiliarsi pur di esserne degno: vedere suo padre con gli occhi di Tonino Stella, il prigioniero del quale Wilhelm è innamorato, sarà una delle ultime immagini dolorose che anticiperanno l’abbandono dell’isola.

Nel cammino verso la maturità, le prove da superare sono niente in confronto alla decisione definitiva: tagliare il cordone ombelicale e seguire il balio Silvestro verso un mondo in cui domina l’azione, dopo tutti quegli anni di attesa, e in cui, forse, scoprire la propria vocazione (Arturo accenna a velleità letterarie in un dialogo prima di imbarcarsi sul piroscafo). Non sappiamo che cosa sia diventato il fanciullo che rincorreva per le spiagge dell’isola l’immaginazione della madre protetta da una tenda orientale. Il ragazzo che svegliava la mammana Fortunata per andare ad assistere il parto di Nunziata e che, una volta saputala fuori pericolo, si riconciliava con il cielo stellato dell’isola, avrà realizzato i suoi sogni? Avrà regalato a qualche ragazza un riccio di mare, dono d’amore che, per mancanza di coraggio, non ha mai raggiunto l’ignara destinataria, troppo impegnata a crescere e curare il fratellastro di Arturo?

Per comprendere a fondo il romanzo, bisognerebbe forse spostare la lente di ingrandimento dai moti d’animo del protagonista a quelli della matrigna, per scoprire che probabilmente anche il suo personaggio ha percorso un itinerario di iniziazione, pur non mutando mai la sua natura ingenua. Nunziata raggiunge una maturità che è lontana dall’aridità tanto temuta da Elsa Morante nella sua lettera a Debenedetti, ma che si esprime attraverso la saggezza di scelte consapevoli. La sua purezza e la sua genuinità trapelano dalle numerose similitudine con animali o elementi naturali che costellano il romanzo, rendendola un unicum tra i numerosi personaggi morantiani.

Il vero segreto del romanzo resta comunque la dimensione allegorica che fa sì che ogni cosa rinvii a qualcos’altro: il lettore è cosciente della polivalenza e dell’universalità delle scene e delle vicende de L’isola di Arturo e non può che condividere col narratore lo slancio gioioso di chi è ancora fisso al punto di una scelta, di chi, cioè, è ancora in quella privilegiata condizione “in potenza” e può permettersi di sognare:

“Presto, ormai, per me, incomincerebbe finalmente l’età desiderata in cui non sarei più ragazzino, ma un uomo; e lui, il mare, simile a un compagno che finora aveva sempre giocato assieme a me e s’era fatto grande assieme a me, mi porterebbe via con lui a conoscere gli oceani, e tutte le altre terre, e tutta la vita!” (Opere, tomo I, p. 1147).

Caterina Sansoni

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