Mixex by Traam

Cara (ovvero: dialettica dell’immaginario)

Scritto da Elettra Bernardo

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Tutti i vagabondi la notte ottengono una patria. Nel buio, quando tutto si scontorna e l’aspetto si scioglie nel nero, il motto giornaliero “tutto il mondo è paese” può rovesciarsi e assumere la responsabilità di affermare che “ogni paese è mondo”.
Un palazzo di cemento, con le sue voci nella tromba delle scale, all’ora di pranzo, che sussurrano parole fatte in un modo, e che in un modo emettono i suoni di ogni singola lettera, sarà calato in un anonimo silenzio; e le percussioni delle posate sui piatti che servono i cibi dagli odori familiari, non esistono più a quell’ora, o al massimo restano per magia, come un’eco lontana, sospesi, come un ricordo. Magari vedendo una cabina telefonica rossa illuminata da qualche lampione si potrebbe, a ben ragione, credere di essere a Londra. E un taxi giallo potrebbe tagliare la strada a uno spaesato viaggiatore urlando con baldanza: “New York city, bellezza!”
Ma ci sono punti ciechi in cui non esiste nulla di peculiare e una casa è solo una casa con una finestra, un vaso di fiori su quella finestra, una tenda dietro quella finestra e una storia, dentro i vetri di quella finestra, che non ci è dato conoscere.
La notte allora, se si vuole, ogni paese è mondo. E così, il vagabondo che ha nostalgia di casa potrebbe infilarsi nel vicolo più buio, e con un po’ di immaginazione fare un biglietto per il primo aereo disponibile. Ma se è vero che l’aereo è il mezzo di locomozione più sicuro sul pianeta, i vicoli bui passano il collaudo molto raramente e se ne consiglia l’uso con estrema cautela.

Per quanto mi riguarda, preferisco i treni; strade di ferro e moquette che dormono in ogni stazione, che non hanno latitudine né longitudine e dove non ci si muove ma si è mossi: strade che percorrono oltre a farsi percorrere.
Ogni notte bazzico in alcune di queste – carrozza 1, 2, 3… – tra sedili, finestrini e tristi moquette, con il mio enorme bidone al seguito e un gilettino arancione pieno di carattere.
Raccatto l’immondizia, il perso e il lasciato del giorno: le riviste lette, le lattine bevute, i cruciverba fatti. Con la scopa scavo bene sotto i sedili, per non farmi scappare via nulla: emergono i biglietti usati, le brochure turistiche appallottolate, l’involucro di uno snack che forse è stato diviso in due. Su un poggia bagagli è stata dimenticata una bustina di plastica con dentro qualcosa: da dove verrà? Questo punto dove io sono in piedi, in questo momento, oggi sarà stato il suolo di almeno quindici stazioni, quindici fermate. Di queste, io, non ne ho veduta nessuna. Domani questo treno si ingloberà a paesaggi, percorrerà mappe, diventerà – seppur per poco – parte di un’altra città. Così, non in una stradina pericolosa e buia, è questo il luogo dove mi piace immaginare, fantasticare, viaggiare: al sicuro tra quattro lamiere, che hanno visto e toccato altri suoli, che anche io vedo e tocco grazie a loro.
Frugo nella bustina, ne esce fuori un brutto souvenir, di quelli con la palla di vetro, l’acqua, la neve di polistirolo. Lo scuoto con forza e la neve, in un turbine, avvolge le spiagge, il mare, il castello, il delfino glitterato che li circonda con il suo corpo sproporzionato e, infine, ricade sulla scritta bianca dai caratteri cicciottelli che grida festosa: Saluti da...

Poggio l’oggetto sul tavolino dei sedili a quattro, e decido di prendere una piccola pausa. Con i piedi tocco qualcosa: un bicchiere di carta usato è stato abbandonato a terra. Lo raccolgo e noto che sul bordo ci sono delle tracce di rossetto rosso.
“Stasera ho una compagna di viaggio” mi dico e accomodo il bicchiere su una delle due poltrone vicine al finestrino. Mi siedo su quella di fronte, sbottono un po’ il colletto della polo e per qualche minuto mi perdo ad osservare i binari in ombra fuori dal finestrino, quindi, chiudo la tendina e:
«Cara, il treno porta un po’ di ritardo ma… guarda, nevica» dico indicando un punto preciso, sulla fantasia di quella stoffa ingrigita. «Il castello innevato sarà spettacolare». Sfilo dalla tasca il mio pacchetto di sigarette e ne accendo una. Velata dal fumo, lei mi guarda con occhi malinconici.
«Non ti va?» le chiedo. «Dove vorresti andare?»
La folta massa scura dei suoi capelli ondulati le incornicia il viso pallido, lei continua a non parlare, io continuo a chiedermi cosa dire.
«Non è tempo di spiagge e di mare; ma chiederemo sul posto, ci indicheranno un luogo carino anche con la neve, anche con il freddo. Magari troveremo una piccola trattoria, di quelle familiari, faremo amicizia con il proprietario, lui ci offrirà il caffè e poi ci dirà: “Nel pomeriggio andate lì, proprio lì!”»
Rimango così, a meditare qualche minuto. Prendo dalla tasca una mappa accartocciata, di quelle dimenticate tra le poltrone. Indico con il dito il nome di un luogo già cerchiato con una penna blu: «Guarda, proprio in questo punto. Poi potremmo fermarci su di una panchina, più o meno in questa zona qui e potremmo scrivere cartoline piene di Saluti da… È un peccato che non si inviino più, non trovi?»
La guardo negli occhi e penso alla prossima di quelle bugie; da qualche parte uno spiffero di aria esterna, fredda, passa in sordina il posto di blocco degli infissi e mi sfiora il collo. L’alba?
La carta della sigaretta si è quasi del tutto riavvolta all’indietro. Le mie dita di vecchio stringono appena così che, d’improvviso, quel che resta della mia pausa fumo cade, con un piccolo rimbalzo, a terra. Scosto la tendina. Sulla banchina, avvolta nel suo cappotto color crema, la pendolare delle cinque è, come al solito, seduta, in attesa del primo treno. I capelli scuri, come al solito, le incorniciano il volto; il rossetto rosso, come al solito, dona colore a un viso troppo bianco. Mi alzo e mi stiracchio, mi massaggio un po’ il fianco. Con la scopa raccolgo il mozzicone, butto via il souvenir, la mappa e infine afferro il bicchiere, lo accartoccio e lo getto.
Turno concluso!

Scendo dal treno. Nell’aria c’è l’odore umido dell’alba. Con uno scossone tiro via il bidone dal veicolo. Fischietto e indirizzo un Buongiorno! alla bella signorina. Lei ha le cuffie nelle orecchie e continua a guardare, con occhi che sembrano quelli di una bambola, nel vuoto. Ha un bagaglio con sé, non l’avevo notato; una valigia, grande, capiente. Al petto ha una spilla a forma di farfalla, grande e variopinta.
D’un tratto la ragazza, sfila  auricolari dalle orecchie e si muove: afferra le sue cose e si avvicina alla porta del treno da cui sono appena uscito.
«Mi aiuta a portarla su?» mi chiede, indicandomi la valigia.
«Certo» le rispondo.
La valigia è pesante, il suo passo nel saltare in carrozza, leggero come il volo dell’animale che ha sul petto.
È già di spalle quando mi sussurra: «Grazie!», sono già a metà del binario quando le rispondo: «A te, cara!»

La stazione prende vita; uomini e bagagli sciamano sul cemento, chi correndo, chi a passo lento, godendosi l’inizio di quella giornata. Lontano, fischia un treno.
È una bella mattina, il cielo è sereno: il momento ideale, finalmente, per andare a dormire.

Elettra Bernardo

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