Recensioni

Due scatole di fiammiferi di Kossi Komla-Ebri

Scritto da Irene Diminio

In un mondo sempre più globalizzato, dove i pregiudizi e i preconcetti non cessano di volteggiare liberi nei cieli della diffedenza, la scrittura migrante offre spunti e riflessioni per un’attenta analisi del multiculturalismo, presentando narrazioni che informano e soprattutto formano il lettore estraneo alle dinamiche dell’interculturalità.

Due scatole di fiammiferi, redatto dallo scrittore togolese Kossi Komla-Ebri e pubblicato nell’antologia Anime in viaggio: la nuova mappa dei popoli di AdnKronos Libri, sembra essere uno dei racconti più esplicativi nel panorama della letteratura migrante, perché capace di infondere la speranza necessaria per cambiare l’epilogo di quella affascinante e talvolta insidiosa avventura che è la vita.

La morte di Togbè, protagonista della storia, può infatti essere interpretata come simbolo della volontà di rinascere, crescere e sviluppare un orientamento produttivo nei rapporti con il mondo, anche quando il mondo è inadatto a riconoscere la pluralità delle individualità e delle culture. Il suo decesso, allora, non è fine a se stesso ma metafora del cammino che la cultura deve compiere per riconoscere un universalismo attento alle differenze e alle particolarità che il confonto impone.

Quindi, così come l’anima del defunto è perennemente in viaggio prima di incarnarsi in un corpo, come descrive la religione animista, allo stesso modo la cultura razzista e xenofoba dovrà continuare a “muoversi” contro una ragione soggettivizzante e strumentale nei rapporti con il forestiero per comprendere il senso della molteplicità.

Quando tornò dall’ospedale la madre di Francesca la vide sottrarre una scatola di fiammiferi nel giardino sotto l’albero ove l’estate il marito usava fare la siesta.
Alla domanda:
– Cos’è Francesca ?
– Niente! Niente mamma, è la vita che continua.
– Figlia mia … Mi sa che sei diventata come loro.
– Si? Forse un pò. 

Si tratta insomma di un rapporto dialettico di stampo hegeliano nel quale la cultura intollerante allo straniero può e deve pensare contro se stessa senza rinunciare a ciò che è stata, giacché dimenticare i suoi misfatti significherebbe banalizzarne gli errori attraverso l’oblio. La cultura razzista dovrà prendere coscienza dei suoi sbagli per cambiarsi e rinnovarsi verso il rispetto dei particolari punti di vista. Ciò indica che le inclusioni dell’altro non devono essere intese né come sua assimilazione, né come chiusura verso il discordante. Significa piuttosto che i confini della comunità sono aperti a tutti, senza che si debba rinunciare alle proprie credenze e ai propri valori. La pluralità, del resto, è la relazione nella quale il singolare è individuato in ciò che ha di peculiare, distintivo e proprio. Nel testo Due scatole di fiammiferi ciò è mostrato dal vivo, nostalgico, dolce e commovente ricordo di Togbè della natia città Togo. Nel ricordo si sente libero dalla solitudine per la lontananza dalla patria e avvolto dal profumo del suo mondo al quale guarda con occhi d’amore, così come Narciso ricorda la sua infanzia attraverso sogni materni:

Da profondità infinite e perdute sbocciavan i fiorellini del ricordo, splendevan lucenti, olezzavan presaghi: ricordi di sentimenti e di esperienze.[1]

L’identità del singolo, perciò, si forma in contesti di socialità-alterità: “Noi siamo tutti uguali, cioè umani, proprio perché nessuno è mai identico ad alcun altro che visse, vive e vivrà”.[2] La pluralità, allora, è principio di uguaglianza tra diversi, poiché “Una sola voce non porta a termine nulla e nulla decide. Due voci sono il minimum della vita, il minimum dell’essere”.[3]

E non è forse simbolo della comunicazione tra due culture differenti, quella italiana e quella africana, l’amore tra Francesca Morelli e Togbè, poi sublimato dalla nascita di un figlio ?

Nel racconto di Kossi Komla – Ebri l’intera trama si snoda attraverso un complesso di immagini a partire dal titolo: le due scatole di fiammiferi dando origine al fuoco, fonte di luce, assumono le sembianze di quel rischieramento imprescindibile per l’evoluzione della civiltà visto che rendono cenere l’odio razziale; così come nel platonico mito della caverna la luce del sole è principio di vita, di calore e guida verso il Bene.

Se il fuoco è immagine della scienza e del sapere, così come nel mito di Prometeo, non casualmente l’essenza di Togbè verrà conservata nelle due scatole di fiammiferi: non il corpo (la carne si dissolve nella terra), ma unghie e capelli costituiscono l’energia vitale di un individuo che era stato capace di instaurare una corretta interrelazione comunicativa con l’umanità.

Ma l’uomo, caratterizzato da sempre da una natura egoistica, riuscirà a varcare quell’atteggiamento di sospetto e sfiducia nei confronti del dissimile? O continuerà a essere, come affermava Hobbes, homo homini lupus? Sarà mai cosciente della condivisione necessaria dello spazio pubblico con gli altri? O seguiterà a reputare lo straniero come nemico? Di certo, finchè non si metterà in moto una progressiva fuoriuscita dalle rispettive cornici di appartenenza di ordine etnico, religioso e valoriale, ciò non sarà mai possibile, dal momento che solo nel meticciato le culture non si annullano, ma anzi si sviluppano, come attesta la decisione di Francesca Morelli di seguire le tradizioni funerarie tipiche del Togo rendendosi conto che:

La nostra mèta non è di trasformare l’uno nell’altro, ma di conoscerci l’un l’altro e d’imparare a vedere e a rispettare nell’altro ciò che egli è: il nostro opposto e il nostro complemento.[4]

[1] Herman Hesse, Narciso e Boccadoro, Mondadori, Milano 1996, p. 58.
[2] Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani, Roma 1958, p. 82.
[3] Michail Bachtin, Dostoewskij. Poetica e stilistica, Einaudi, Torino 2002, p. 183.
[4] Herman Hesse, Narciso e Boccadoro, p. 95.

Irene Dimino

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