Recensioni

Cipria di Piero Bellotto

Scritto da Flavia Cangiamila

Il commento di una lettrice dopo la lettura di Cipria di Piero Bellotto.

Basandomi sulle esperienze di lettura condotte finora, Cipria potrebbe rientrare in quel faldone di racconti pseudo-autobiografici che sfruttano – cioè – il metodo letterario per ricomporre un’esistenza. Più correttamente, per ricomporre l’intima verità di un’esistenza. L’esclusività del filtro intradiegetico del protagonista-narratore, Piero, permette di calarsi, attraverso una rete di ricordi noncuranti della sequenza cronologica, nella disamina, profonda e dolorosa, della storia di un’anima. Non conta troppo, insomma, che quanto raccontato sia una restituzione linearmente ed effettivamente autobiografica o che, al contrario, sia un gioco (almeno parziale) di invenzione narrativa. Ciò che rende il racconto interessante è l’impietosa sincerità con cui il suo narratore tratteggia il dramma interiore che se ne fa oggetto. Cipria è la confessione di una condizione morale, cronicamente permeata da un senso di inalienabile inadeguatezza.

E, sin dall’inizio, in modo parimenti sincero, si viene gradualmente condotti verso la scoperta e la definizione di ciò che è causa di questo: il libro, al di là di pretenziosi tecnicismi psicanalitici, contiene intrinsecamente la corretta e consapevole risposta al disagio che racconta. E il personaggio, di cui attraversiamo le varie fasi psichiche e anagrafiche, arriva a ricondurre tutti i propri comportamenti, specialmente i più morbosi e deleteri, a un complesso edipico irrisolto. E, si potrebbe dire, è con madre che la storia inizia e termina. Piero sembra restare prigioniero di una tossica ovatta materna, da cui continua a essere rovinosamente avvolto per tutta la vita, persino dopo averne subito il lutto. Ciò, oltretutto, condiziona irrisolvibilmente il potersi riconoscere serenamente nel proprio orientamento omosessuale.

La tematica del rigetto, personale e sociale, dell’identità sessuale, viene trattata anche ripercorrendo episodi salienti della giovinezza di Piero, aprendo uno spaccato sul costume della gioventù milanese degli anni ’80/90 che stringe il focus sul consumo smoderato di droghe e sul sesso irresponsabile, aggravati dal peso del pregiudizio della società perbenista.

A tal proposito, sembra ancora opportuno soffermarsi su quello che è forse l’aspetto peculiare di questo romanzo. Il Piero narratore non risparmia alcun dettaglio neanche sulle sue esperienze percettive. La scelta retorica, in pratica, è quella di passare attraverso la sensorialità. Sfruttando il criterio sinestetico pubblicizzato in sinossi, metafore originali mediano la descrizione di oggetti e situazioni; ma a risultare ancor più dominante è una dimensione essenzialmente corporale, delineata e resa vivida da immagini carnali rimescolate a sensazioni tattili e olfattive. In sostanza, questo testo stilisticamente interessante indugia su una scrittura duramente vera, talvolta brutale, più che irriverente, puntellata di uno sferzante amaro sarcasmo con cui il protagonista-narratore, a tratti, stempera la scabrosità di certe scene ma, il più delle volte, rimarca l’asprezza di certe sue confessioni.

Il passaggio concreto attraverso le sensazioni del corpo, peraltro, contribuisce a rendere ancora più autentico questo viaggio narrativo. Soprattutto, comprendere la potenza della sensazione e la sua influenza sulla condizione psico-fisica del personaggio contribuisce a giustificare il primato di un’emotività compulsiva che, oltre a risultare sempre preminente rispetto a ogni capacità intellettiva (di cui Piero sembra pur essere ampiamente dotato) emerge, da dialoghi e ragionamenti, come sua caratteristica prevalente, nonché essenziale. Ne risulta l’ammissione dichiarata di quella che può essere, tanto combattuta ma irriducibile, l’essenza emozionale di un essere umano.

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