Il commento di una lettrice dopo la lettura di Cipria di Piero Bellotto.
Basandomi sulle esperienze di lettura condotte finora, Cipria potrebbe rientrare in quel faldone di racconti pseudo-autobiografici che sfruttano – cioè – il metodo letterario per ricomporre un’esistenza. Più correttamente, per ricomporre l’intima verità di un’esistenza. L’esclusività del filtro intradiegetico del protagonista-narratore, Piero, permette di calarsi, attraverso una rete di ricordi noncuranti della sequenza cronologica, nella disamina, profonda e dolorosa, della storia di un’anima. Non conta troppo, insomma, che quanto raccontato sia una restituzione linearmente ed effettivamente autobiografica o che, al contrario, sia un gioco (almeno parziale) di invenzione narrativa. Ciò che rende il racconto interessante è l’impietosa sincerità con cui il suo narratore tratteggia il dramma interiore che se ne fa oggetto. Cipria è la confessione di una condizione morale, cronicamente permeata da un senso di inalienabile inadeguatezza.
E, sin dall’inizio, in modo parimenti sincero, si viene gradualmente condotti verso la scoperta e la definizione di ciò che è causa di questo: il libro, al di là di pretenziosi tecnicismi psicanalitici, contiene intrinsecamente la corretta e consapevole risposta al disagio che racconta. E il personaggio, di cui attraversiamo le varie fasi psichiche e anagrafiche, arriva a ricondurre tutti i propri comportamenti, specialmente i più morbosi e deleteri, a un complesso edipico irrisolto. E, si potrebbe dire, è con madre che la storia inizia e termina. Piero sembra restare prigioniero di una tossica ovatta materna, da cui continua a essere rovinosamente avvolto per tutta la vita, persino dopo averne subito il lutto. Ciò, oltretutto, condiziona irrisolvibilmente il potersi riconoscere serenamente nel proprio orientamento omosessuale.
La tematica del rigetto, personale e sociale, dell’identità sessuale, viene trattata anche ripercorrendo episodi salienti della giovinezza di Piero, aprendo uno spaccato sul costume della gioventù milanese degli anni ’80/90 che stringe il focus sul consumo smoderato di droghe e sul sesso irresponsabile, aggravati dal peso del pregiudizio della società perbenista.
A tal proposito, sembra ancora opportuno soffermarsi su quello che è forse l’aspetto peculiare di questo romanzo. Il Piero narratore non risparmia alcun dettaglio neanche sulle sue esperienze percettive. La scelta retorica, in pratica, è quella di passare attraverso la sensorialità. Sfruttando il criterio sinestetico pubblicizzato in sinossi, metafore originali mediano la descrizione di oggetti e situazioni; ma a risultare ancor più dominante è una dimensione essenzialmente corporale, delineata e resa vivida da immagini carnali rimescolate a sensazioni tattili e olfattive. In sostanza, questo testo stilisticamente interessante indugia su una scrittura duramente vera, talvolta brutale, più che irriverente, puntellata di uno sferzante amaro sarcasmo con cui il protagonista-narratore, a tratti, stempera la scabrosità di certe scene ma, il più delle volte, rimarca l’asprezza di certe sue confessioni.
Il passaggio concreto attraverso le sensazioni del corpo, peraltro, contribuisce a rendere ancora più autentico questo viaggio narrativo. Soprattutto, comprendere la potenza della sensazione e la sua influenza sulla condizione psico-fisica del personaggio contribuisce a giustificare il primato di un’emotività compulsiva che, oltre a risultare sempre preminente rispetto a ogni capacità intellettiva (di cui Piero sembra pur essere ampiamente dotato) emerge, da dialoghi e ragionamenti, come sua caratteristica prevalente, nonché essenziale. Ne risulta l’ammissione dichiarata di quella che può essere, tanto combattuta ma irriducibile, l’essenza emozionale di un essere umano.