Era uscita quella mattina, come faceva da dieci anni. Aveva imboccato la strada che portava alla stazione, percorso i primi metri: sentiva i suoi passi procedere lentamente, quasi i piedi si incollassero all’asfalto. Nebbia e buio pesavano sulla sua pelle e solo il tintinnio del portachiavi che batteva sull’anello al suo anulare destro le ricordava dove stava andando e per quale motivo. Non poteva sopportare che i suoi occhi scivolassero via, liquefacendosi nell’ inconsistenza delle parole non dette, che le sue mani abbandonassero ogni cosa fosse stata loro. Bagnata, rimaneva immobile sul binario, mentre sfrecciava il treno su cui non era salita.
Era uno sbaglio, perderlo, ma andava fatto. Forse erano dieci anni che ci pensava. Da quando le aveva infilato l’anello alla destra, dicendo di amarla. Perché alla sinistra portava già la vera matrimoniale.
In casa aveva detto “É un regalo che mi sono fatta”. Si trattava di un girotondo di bambini e bambine in oro rosso, giallo e bianco. Luccicava nel pulviscolo della pioggia che là, sulla banchina del treno, non voleva evitare.
“Saranno i nostri figli” aveva scherzato dolcemente. Parlava di tutti gli anni in cui si sarebbero amati.
I due maschi che lei aveva dato a suo marito erano frutti dell’amore. Gli anni che aveva dato a lui erano figli della femmina. Non era facile spiegarsi come la maternità vera fosse stata maturata in lei facendo l’amore con il suo amante, non con il marito che amava. Ma le cose erano proprio andate così. Soprattutto nel vedersi invecchiare crescendo Raffaele e Sergio.
Tre maschi in casa, che la vedevano come una cosetta da coccolare o come un salvagente sempre pronto a lanciarsi. Senza le sue notti di amante, non ce l’avrebbe fatta.
Nel cielo che mutava tonalità dal grigio scuro ad un color piombo, la sua anima a terra sentiva il peso della distanza dal cielo addosso a sé.
Rientrando ogni mattina a casa, giusto due fermate di treno veloce, una decina di minuti, aveva sempre trovato l’energia per preparare la colazione a tutti e farsi trovare sorridente, perché lo era davvero dentro di lei.
E tutto era andato matematicamente bene. Mai una sveglia saltata, mai un treno perso. Almeno durante la settimana; Sabato e Domenica erano per le rispettive famiglie e anche le feste comandate, come le vacanze. Raccontare come suo marito non si fosse mai accorto delle sue assenza notturne, che incominciavano all’una di notte e arrivavano alle sei di mattina, sarebbe sembrato uno scherzo. Eppure, così era stato, grazie alla precisione che lui usava con il suo sonno come con tutte le altre cose della sua esistenza. Un uomo su cui fare affidamento, un professionista valido, un marito affettuoso, un ottimo padre. Lei lasciava semplicemente accesa la luce del suo bagno personale e la porta chiusa a chiave.
Nel caso, avrebbe detto che non lo aveva sentito chiamarla, che si era addormentata sulla poltroncina a righe ascoltando musica e fumando, per non disturbarlo in camera da letto. Usciva dopo aver soffiato fumo di Muratti contro lo specchio della petineuse, dopo le storie della buona notte, l’acqua sul comodino e lucine accese per i ragazzi, dopo la passeggiata con il cagnone Buster. Nel fresco della sera aveva sempre sentito aprirsi in lei la porta della sua audacia e uscirne il suo inquieto sentimento.
Quando si erano accorti di abitare non molto lontani, a pochi quartieri di distanza della grande metropoli, improvvisamente la vicina stazione troppo viva anche di notte, le era sembrata un dono della fortuna.
“ Verrò io da te”.
Non c’era stato modo di farle cambiare idea. Aveva bisogno della donna che correva a prendere il treno azzurro, del notturno breve viaggio, dei passi coscienti ma ebbri. Poi la luce del piccolo ingresso rosso ciliegia, che l’aspettava dietro la porta aperta con due giri di chiave dati senza fare rumore; i baci, l’amore nella pelle.
Se ci ripensava, ostinatamente ferma nell’acqua che la inzuppava, non ricordava subito scene particolari della loro passione. Le pareva di aver fatto surf su di un onda oceanica lunga fino a quel momento preciso, là in stazione. Ora si dibatteva sotto l’onda assassina che non aveva saputo riconoscere.
Con le chiavi delle loro stanze per l’amore ancora nel pugno, ripercorreva alla moviola le immagini della notte andata. Un incubo che la travolgeva perché non era un sogno. Come aveva fatto a non prevedere un risvolto come quello? Poiché erano in una relazione irregolare da tanto tempo, l’anomalia era divenuta un’abitudine, qualcosa che aveva creduto un suo diritto pagato con la fantasia, la menzogna e la fatica.
Ma no. Non sarebbe assolutamente arrivata nemmeno vicina alla soluzione che lui aveva trovato.
In dieci anni, mantenere vivo l’entusiasmo del loro rapporto, aveva voluto dire non entrare troppo uno nella vita dell’altro. In qualche modo, avevano costruito una routine fatta di clandestinità eccitante, di spazi e tempi inusuali. Se avevano fame, mangiavano a letto imboccandosi, bevendo alla bottiglia; se crollavano di stanchezza, dormivano qualche ora per risvegliarsi nel cuore della notte a fare l’amore come allungassero le mani dentro ad un sogno.
Certamente, conoscevano le dinamiche della vita di famiglia che avevano formato sotto il sole, sapevano molte cose. Ma non così tante. Il loro era un universo differente. Ci voleva fisico, anima e arte per starci dentro. Era stata certa di condividere la stessa cura che lei metteva nel custodire il loro rapporto.
Ma desiderare qualcosa per qualcuno più di quanto lo faccia lui stesso, è drammatico e si paga.
Di quella notte, portava la domanda di lui “Vuoi un po’ di musica?”. E le aveva acceso la tele su sky radio. Prima, l’aveva baciata con infinita passione, accarezzata e amata seguendola nei suoi orgasmi come avesse timore di vederla sparire. Almeno a lei era sembrato così. Le era parso strano, emozionato, un poco smarrito. Ma non ci aveva dato peso. La notte aveva sempre ampliato ogni loro gesto, togliendo le ombre, dilatando il buio della loro anima.
Il riverbero azzurrino aveva allagato la stanza. Le aveva parlato con il profilo teso, senza guardarla e senza preamboli. “ Le ho detto di noi. Sa tutto”.
Senza riflettere gli aveva chiesto “ Ma chi? Cosa dici?”.
“Ho detto tutto a mia moglie”. Era una tale enormità, che non lo capì per qualche secondo.
Balbettò. “Perché?”
Le rispose qualcosa che non riuscì a seguire. Stava rovesciandosi il suo mondo e le girava la testa.
Ebbe la curiosa sensazione fisica di spezzarsi in due figure che scappavano una lontana dall’altra, in due direzioni diverse. Fece un gesto, come per tenersi insieme. Si abbracciò.
Una volta, avevano rubato in casa sua e davanti ai disastri di mobili aperti e di cassetti rovesciati, aveva subito messo a fuoco la realtà incancellabile: non avrebbe più rivisto i gioielli di famiglia, quelli del fidanzamento, dei battesimi, delle feste sottolineate da un ricordo prezioso. Quando del male stava accadendo, si buttava nel tornado senza il minimo tentativo di evitarlo, visto che era impossibile. Le energie che risparmiava, servivano ad affrontare il dolore.
Ebbe chiaro il pensiero che non si sarebbero mai più visti e toccati. Da là, dal futuro che le sarebbe arrivato addosso, ritornò indietro per sentire le parole di lui, che spiegava e parlava e parlava.
“ Io ho sempre avuto questa energia dentro di me che mi ha permesso di prendere e dare amore, di fare felice diverse donne, sai che il femminile è la dimensione che mi manca e che esalto… Capisci, sai bene che lei è la mia compagna di vita, lo sai cosa vuole dire. Lo sai. Anche tu lo sai cosa vuole dire vivere davvero insieme la quotidianità della famiglia.” E la guardava, come se lei avesse dovuto dargli ragione, come se non si potesse pensarla se non in quel modo. E parlò ancora, le spiegò tutto.
Scivolò dal letto nuda e si rivestì.
Se ne andò in cucina a bere dell’acqua fredda di frigo. Aprì il piccolo elettrodomestico, adatto a due amanti di notte, prese una San Pellegrino gassata. Sentiva la necessità di un rutto. Lo stomaco era bloccato.
Bevve, si sedette al bancone infilato nelle parete. Rimase a fissare le piastrelle bianche. Si stava chiedendo come avrebbe fatto a preparare la colazione per tutti a casa. Era certa di non poterlo sopportare.
Sandro la raggiunse, anche lui rivestito. Scorgeva lo stesso uomo che aveva desiderato appena visto, alto, quasi rovesciato all’indietro nel camminare, un fisico da ragazzo, i fianchi stretti, le spalle larghe. Ma non ne era proprio sicura. Forse, come lei era invecchiato in quei dieci anni. Aveva messo su qualche chilo, perso dei capelli, c’erano dei segni sul suo viso, delle pieghe davanti alle orecchie. Lui sedette a fianco per continuare il discorso a testa china. Ma a lei venne una voglia irresistibile di vedersi nello specchio. Nell’ingresso, cercò la ragazza di trent’anni che lo aveva fatto impazzire di desiderio. La trovò sciupata.
Alzò la gonna e si esaminò il sedere. Così, mezza nuda, ritornò in cucina: “È perché non ho più il sedere su?” .
Non avrebbe detto molto altro quella notte. Era gelata, assente. Lui si spaventò. Ma non osò massaggiarla. Lei aveva sentito benissimo quello che le aveva raccontato in camera da letto. Una storia pazzesca. Ma poi, pensò alla loro, di storia. Non era nella condizione di permettersi un tale commento.
Ancora lui le parlò tenendole le mani che fredde lei gli lasciò stringere. “Lena, non ho potuto fare in altro modo, abbiamo sempre detto che il giorno era un’altra vita. Io… io ho potuto solo fare così”.
Adesso rimpiangeva di non aver commentato, di essere rimasta immobile senza toccarlo. Era sua quella vita che lui aveva venduto. Lui era suo, non ci si vede per dieci anni di notte, senza appartenere all’amante. Non lo aveva guardato con rimprovero, né si era strappata i capelli. Non aveva buttato le chiavi nel water né aveva volto lo sguardo intorno per imprimersi l’ultima volta della sua infedeltà. Aveva riso. E non da isterica. Dieci anni creduti sovversivi e ancora una volta aveva fatto da salvagente. Non ci si libera mai di se stessi. Perfettamente sigillata, aveva passato tre ore accanto a lui senza vederlo. Non lo aveva schiaffeggiato come aveva fatto la moglie. Lei non era la moglie. Per fortuna.
Non aveva pensato a nulla di commovente, né aveva rivisto in rapida successione i loro anni di amore fisico che la mente aveva infuocato di sentimenti extralarge, in grado di coprire come una t-shirt griffata qualsiasi banale gesto della giornata. Da quella maglietta immaginaria, continuava ad uscire e ad entrare, là davanti ad altri treni che passavano per chissà quante destinazioni.
Decise che seduta sulla panchina fuori dalla tettoia, la pioggia sarebbe stata ancora più adeguata alle sue ossa fredde. Si sistemò come dovesse marcire per sempre sul legno di quella piccola spianata per zaini e sederi stanchi. Voleva raccontarsi con parole vivide quello che Sandro le aveva detto a voce bassa, senza fronzoli, da uomo determinato e sorprendente quale era.
Voleva frequentare la sua mente stuporosa, fino a svegliarla davanti alla proiezione del film della sua catastrofe. Nient’altro che rovina e disfatta. Non aveva posto per altro. Non si sentiva nemmeno sola.
Era al di là.
Aprì il palmo che stringeva il portachiavi da due soldi, esattamente progettato per celare l’importanza delle sue notti. Qualcosa che lasciato in giro, potesse sembrare l’apertura del cancello del suo studio, della rimessa sotto il palazzo dove lavorava. Una inezia. Le stava bruciando nella mano, forse per il freddo intenso del metallo, forse per allucinazione. La moglie di lui era graziosa, minuta, bionda. Una donna a posto, un poco spenta, troppo semplice. Immaginava i suoi occhi di un azzurro slavato, fissi con furia e disprezzo, legalmente accreditati a chiedere conto al marito del suo comportamento.
Cosa che non era mai passata per la testa a lei.
Lei forte, trasgressiva, bruna a tinte vivaci, audace. Essere amanti notturni, sregolati, alternativi, aveva cancellato altri sospetti. Ma Sandro aveva trovato il tempo e le energie per altre avventure. Elena non ci si era mai soffermata. In definitiva le importava poco di cosa lui facesse di giorno. Non aveva pensato che lui potesse farsi scoprire… che la moglie trovasse lettere, foto intime, spese, chat, vuoti temporali. Lui, di fronte al disastro che stava travolgendo tutta la sua esistenza, non aveva saputo inventarsi altro che offrire in sacrificio la loro avventura di sesso e di amore.
Perché sapeva che lei non lo avrebbe distrutto, non avrebbe infierito sulla disgrazia. Lo avrebbe risparmiato. Decine di tradimenti con giovani donne, stipati dentro la loro scatola magica.
Aveva parlato di una relazione lunga dieci anni, l’unica, la sola, intrapresa per avere più forze da dedicare alla vita matrimoniale.
Non un traditore seriale irrecuperabile. Solo un infedele per troppe responsabilità. Un brav’uomo che si era inventato turni di notte in ospedale, dove calmare le irrequietezze che avrebbero offeso la famiglia.
Quasi un eroe del doppio lavoro. Lo vedeva molto bene, usare quei suoi occhi dolci, che lambivano il cuore, le lacrime che non si vergognava di piangere anche se maschio, i gesti di amore delle sue belle mani per contenere l’ira della moglie, gli schiaffi che si era preso e tenuto inginocchiandosi a chiedere perdono di uno sbaglio fatto per generosità e sopravvalutazione delle sue forze. Era anche seguita una pietosa tirata su come lei, Lena, avesse riconosciuto in lui doti che nemmeno sapeva di avere, sostegno che lo aveva reso migliore in famiglia.
Sandro non aveva nascosto nessun sotterfugio utilizzato per dare senso al tradimento. Di lei si fidava, le aveva detto. Non aveva potuto fare altro, continuava a ripetere apparentemente disperato.
Però aveva scelto.
Pierangiola Maglioli