Recensioni

Riparare i viventi

Scritto da Eliana Catte

Le recensioni di Connessioni Letterarie

Sono due gli elementi che colpiscono immediatamente il lettore ad una prima, superficiale analisi del romanzo Riparare i viventi, scritto da Maylis De Kerangal (Feltrinelli, 218 pagine): il primo è l’immagine di copertina, così iconica e metaforica, che ritrae un ragazzo nel pieno della forza e della bellezza, il corpo scolpito e i capelli scompigliati da semidio come a richiamare la sensazione di immortalità che sembra pervadere la giovinezza la posizione protesa del surfista che affronta l’onda si scoprirà leggendo il libro che proprio quella è la preferita di Simon Limbres perché “(…) gli permette di afferrare tutto lo sfavillio della sua esistenza, e di addomesticare gli elementi, di fondersi col vivente (…)”, pur essendo immerso non nelle migliori acque del pianeta, esotiche e selvagge, come sognato dal suo gruppo, quello dei ‘Tre Caballeros’, ma in una dimensione celestiale, onirica, sospesa tra cielo e terra, tra il mare foriero di vita per il protagonista e le nuvole che si stagliano sul cielo francese nel corso delle ventiquattro ore al cardiopalmo durante le quali la vita si alternerà e mescolerà con la morte tanto da svelarne la natura duplice, l’olismo dell’esistenza che contiene in sé anche la sua faccia più brutale, la sua oppositrice e nemica, ovvero la morte.
Il secondo elemento è il titolo, apparentemente svelato dalla breve trama riportata sul retro del volume ma che, in realtà, assume un significato profondo quando la prospettiva del trapianto si abbatte in tutta la sua prepotenza sulle vite dei genitori di Simon Limbres, chiamati a decidere per lui: la radice dell’arcano si trova nell’ufficio dell’infermiere Thomas Rémige, sulla fotocopia di una pagina dell’opera di Čechov, Platonov, che riporta il dialogo tra Voinitzev e Triletzky. La frase illuminante, che dà il titolo al romanzo, è la laconica risposta a una domanda, un “Che fare?’” pieno di dubbi: “Seppellire i morti e riparare i viventi”.

 All’improvviso, non vede più una materia assoluta in luogo di quel corpo disteso, un materiale di cui far uso e da dividersi, né un meccanismo fermo che si studia per salvare i pezzi buoni, ma una sostanza di una potenzialità inaudita: un corpo umano, la sua forza e la sua fine – la sua fine umana. 

Si riscoprirà nel corso della lettura che, nonostante l’oblio collettivo, persino l’inevitabile sepoltura dei non viventi è una somma di azioni, un’impresa corale tanto quanto le vite di ciascuno di noi e che, nel caso del funesto destino dell’appena ventenne Simon narrato nel romanzo in questione, vede “(…) mani che si danno da fare e (…) gesti prodigati (…) [come] quelli di un restauro” su un corpo ormai silenzioso perché privo del battito del cuore e vuoto degli organi espiantati. Se da un lato, in altre province del Paese, si riparano i viventi bisognosi di un trapianto i quali vivono nel limbo dell’incertezza e dell’attesa come se avessero una “spada di Damocle sopra la testa”, dall’altra si “riparano i danni, rimettendo ciò che è stato donato come è stato donato, evitando la barbarie”, come dice Rémige.

È proprio lui a occuparsi della restituzione di integrità e dignità al corpo di Simon, a conclusione di quest’opera: è lui che svolge la toilette del corpo prima che venga ridato ai cari nella sua ultima immagine, lui a svolgere i rituali funerari che nei secoli, da quelli riservati agli eroi della mitologia greca a quelli descritti nei dipinti sacri del Cristo deposto dalla croce, cercano di conservare intatta la bellezza dell’eroe, “(…) la ricostruzione dell’unicità di Simon Limbres” privata delle orpellose elevazioni mistiche e portata alla dimensione reale e atavica nei suoi gesti rituali di commemorazione della vita che, come narrato senza mielosa retorica nel romanzo della De Kerangal, si distacca da un corpo per ricominciare il suo eterno ciclo in un altro.

Tuttavia Rémige non è l’unico personaggio a gravitare attorno all’operazione collettiva di soccorso, tentate cure, espianto e restituzione ad integrum del corpo del giovane Simon: insieme a lui anche i genitori Marianne e Sean, la sorellina Lou, gli amici che viaggiavano con lui al momento dell’incidente, la fidanzata Juliette, il dottor Pierre Révol, l’infermiera Cordélia Owl, la coordinatrice della ricerca di organi Marthe Carrare, i due chirughi dell’espianto, il ‘maestro’ Harfang e il ‘cervello in fuga’ Virgilio Breva, in uno sfarfallio di vite narrato con delicatezza tale da dare al lettore l’impressione di trovarsi dinnanzi a un diamante l’opera in questione dalle molteplici facce caleidoscopiche, le cui presenze conferiscono alla pietra preziosa Simon Limbres, protagonista assoluto nel suo passaggio dalla vita alla morte, fino al suo alternativo ritorno al ciclo vitale una luminescenza senza pari.

L’alternanza della narrazione delle vite dei personaggi che si affollano attorno al capezzale di Simon, lo curano, decidono del suo futuro, riparano i viventi grazie al suo estremo sacrificio ma, soprattutto, vivono le loro vite parallelamente alla morte arrivando ad assumere il coraggio di modificarla in funzione di quest’entità che cominciano a conoscere davvero, i dialoghi concisi, la trama incalzante di “Riparare i viventi” incidono il pensiero del lettore così come un bisturi fa con la carne. Maylis De Kerangal ha svolto un lavoro magistrale scrivendo un capolavoro paragonabile ai grandi classici della letteratura che, solo per i temi trattati in maniera altrettanto toccante e umana, ricorda romanzi quali “Non ti muovere” di Margaret Mazzantini e “Paula” di Isabel Allende.

L’ “incubo di magnitudo inaudita”, per i genitori di Simon Limbres Nomen omen , ha inizio con l’incidente stradale che causa al ventenne una gravissima emorragia cerebrale. Si passa così rapidamente e brutalmente dal caravan tappezzato di adesivi e ritagli di riviste specializzate sul mondo marino e sul surf, dalla passione per le onde e la vita tanto spericolata quanto impegnativa condivisa con gli amici dell’autoproclamata crew dei Big Wave Hunters, agli ambienti asettici dell’ospedale, anch’essi apparentemente grigi e freddi ma, in verità, pullulanti di vita: quella dei pazienti, degli operatori, degli infermieri, dei medici con i loro sentimenti, i loro segreti, le loro aspirazioni, gli obiettivi e gli ideali.

Impossibile non immedesimarsi nell’impaziente corsa di mamma Marianne verso l’ospedale a seguito della tragica telefonata, la sua ricerca di Sean, padre dei suoi due figli e indimenticato compagno, la comunicazione dell’irreversibilità delle condizioni del loro figlio, muta di parole e detonante nella sua drammaticità, la consapevolezza del fatto che il coma di Simon sia dépassé, il beffardo gioco del destino che vede le madri dei suoi amici non riuscire a gioire appieno per la salvezza dei loro figli, “la possibilità del rifiuto [come] condizione stessa del dono” e il dono, quello del trapianto multiorgano, che viene accordato superando la paura del dolore che il loro bambino dovrà ancora patire, “la sacralità del corpo” e la “trasgressione della sua apertura”, con una frase semplice, incisiva, brutale e benedetta allo stesso tempo: È donatore”.

“Il cuore di Simon Limbres. Cosa sia questo cuore umano, (…), cosa l’abbia fatto balzare (…) o pesare come un macigno, (…), che cosa abbia filtrato, registrato, archiviato, scatola nera di un corpo di vent’anni,(…) quel cuore umano, proprio quello, sfugge alle macchine(…)”: così come, allo stesso modo, sfugge alle macchine il dolore immenso dei genitori che non si arrendono all’infausta prognosi di coma irreversibile perché il corpo del figlio, capelli ancora scompigliati dalla salsedine, impalpabile guizzo dei muscoli, colorito roseo, ha un cuore che continua a battere nonostante la totale assenza di attività cerebrale e funzioni vitali. L’empatia, prima regola citata nel romanzo e valida per qualsiasi operatore e chirurgo specializzato che venga in contatto con questa morte sospesa e la lenta agonia dei parenti, non può certo vedere il cuore, atavico simbolo morale, religioso e iconico, ridotto da una mera procedura cardiotoracica a “(…) pompa idraulica, un muscolo capace di assicurare la continuità del flusso con (…) le sue pulsazioni”, perché “(…) [il] cuore (…) va al di là del cuore (…), non bastando più il muscolo in esercizio per separare i vivi dai morti”.

La totale empatia che traspare dalle parole dell’autrice, senza venir meno neanche quando adopera un ineccepibile linguaggio tecnico, lascia tra una pagina e l’altra tracce che commuovono e fanno riflettere sul significato profondo di tragedie come quella narrata.

Sono da annoverare tra queste il senso di colpa di Marianne, madre di Simon, per non aver impedito al figlio, troppo piccolo, fragile e influenzabile, di intraprendere la stessa vita del padre, il suo tentativo, più che legittimo, di cercare un nascondiglio per evitare “gli amici, (…) il loro panico e la loro sofferenza” che si aggiungerà a quella della sua famiglia senza nemmeno tentare di alleviarla un poco, le domande che la burocrazia medica fa cadere nel vuoto, ovvero le sue e quelle della beneficiaria del cuore del giovane, Claire Méjan, col suo pensiero rivolto non alla paura dell’intervento, ma a quel “qualcuno (…) morto oggi perché tutto questo succeda”, perché si compia questo “dono speciale”.

In base all’eterno ciclo vitale riassunto come una moderna tragedia greca nel romanzo Riparare i viventi, mentre il dottor Rémige compie gli ultimi riti di commiato pensati dai genitori per Simon, mentre il giovane abbandona l’avvenire cullato dal suono delle sue amate onde marine, tutto ciò che resterà della sua vita fatta di amori, amicizie, passioni, avversioni, della sua unità corporea e memoria individuale, “del suo riflesso sulla Terra”, “di quel cuore traboccante, pieno, troppo pieno, quel cuore full” saranno gli organi che, grazie ai professionisti che si muovono frementi pur senza un briciolo di glorificazione pubblica, corrono “verso altri corpi” e, come il suo cuore, ricominciano poco a poco il loro lavoro, il loro ritmo, un battito che “evoca quello del cuore di un embrione” e che continua a sopravvivere così come quello dei genitori, della sorella minore Lou, dell’amata Juliette, degli amici e dell’équipe medica che, moderno Caronte, ha traghettato i vivi ed i morti.

È così che Simon Limbres, donando tutti “i sensori vivi del suo corpo”, diventa egli stesso l’uomo-corallo, trasfigurando nell’autore del libro sulla reincarnazione che avrebbe voluto incontrare, e nella suggestiva dichiarazione d’amore di Juliette, basata sulle parole de la ‘Ballata degli impiccati’ di Villon: “Fratelli umani, che ancor vivi siete/ non abbiate per noi gelido il cuore”.

Titolo: Riparare i viventi (edizione originale: Réparer les vivants)
Autore: Maylis De Kerangal (trad. it. M. Baiocchi con A. Piovanello)
Editore: Feltrinelli (edizione originale: Éditions Gallimard)
Anno: 2015 (edizione originale: 2014)

Eliana Catte

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