Racconti d'autore

La parte sbagliata

Scritto da Ivan Bececco

Le porte della cella si sono aperte per me il 24 giugno 1997 alle 15 e 31 minuti, dopo aver trascorso cinque anni dentro quella scatoletta bianca e umida. Il mio compagno di galera stava dormendo, lo sentivo galleggiare nel tipico sonno del dopopranzo che ti cattura gli occhi in un pomeriggio afoso; non me la sono sentita di svegliarlo. Ho chiesto di potergli lasciare un biglietto di saluti, ma i carcerieri hanno detto di no. Allora ho detto ciao, Tonino, scusa se me ne vado così, ma è davvero un piacere vederti dormire, tu che hai sempre sofferto d’insonnia.

Sono passato a raccogliere le mie cose, un paio di pantaloni e un giubbotto, e a depositare una firma che certificava la mia scarcerazione. Eccomi fuori, all’aria aperta, eccomi a rimirare il cielo di Roma dopo che per cinque anni sono stato costretto a vederlo attraverso un rettangolo ritagliato nel muro. Il brigadiere De Marco, insieme ai vestiti, mi ha riconsegnato le chiavi del mio appartamento, che secondo la legge mi spetta di diritto dopo la morte di mia madre avvenuta tre anni prima. Poi mi ha detto tieni, ecco ventimila lire, compratici una lametta e del resto fanne che vuoi, puntando il dito inquisitore verso la mia barba incolta. Mi ha sempre voluto bene, De Marco, quel bravo figlio di buona donna con i baffetti da sparviero.

Il taxi mi ha scortato al 25 di via Venti Settembre. Ho attraversato la soglia di casa mia e respirato la stessa aria consumata che aleggiava nel penitenziario durante i mesi invernali, portando alla mia memoria tante cose, ricordi che in quel momento avrei preferito tenere sepolti.
Ho gettato sul divano il mio bagaglio e alzato le tapparelle, lasciando che il sole inondasse il soggiorno. Casa mia si affaccia su un minuscolo parco giochi che, durante i mesi estivi, si riempie di vocianti bambini e nonne apprensive schierate vicino alla strada, pronte a richiamarli all’ordine quando si allontanano. Ecco: uno di quei ragazzi è addossato a una colonna e sta contando a voce alta, mentre i suoi compagni schizzano in mille direzioni diverse alla ricerca di un nascondiglio sicuro. Indossa una maglietta bianca, un paio di calzoncini arancioni e i sandali.
– Quarantotto… quarantanove… cinquanta! Arrivo, pronti o no!
Sento qualcuno ridacchiare in lontananza.
Accendo una sigaretta. Vent’anni fa c’ero io, al posto di quel ragazzino.

Entro nella mia camera da letto e comincio a disfare il borsone. Scopro che nella tasca sinistra del giubbotto c’è un biglietto stropicciato con su scritto qualcosa, in una grafia piuttosto sghemba:

Mattia, oggi è il grande giorno, finalmente esci di galera! Sarà un po’ difficile, all’inizio, riabituarsi alla vita di tutti i giorni, ma se stai tranquillo e non fai cazzate andrà tutto a posto. Ho uno zio, Giancarlo, che lavora in un’officina in via Germania, vicino a Villa Gloria, e mi ha detto che sta cercando qualcuno che gli dia una mano. Ti lascio il suo numero: 0618276508. Chiamalo, mi raccomando.
In gamba, ragazzo. Ti tengo d’occhio.
Giuseppe De Marco

Mi sfugge un sorriso. Metto in ordine lo scarso contenuto della mia borsa e poi mi lascio cadere sul letto che mi ha visto crescere e poi andare via, strattonato dalle possenti braccia di due carabinieri. Era il 28 maggio del 1992. Improvvisamente, qualcosa ritorna alla mia mente, un ricordo spuntato fuori da chissà dove e lanciatosi a velocità folle contro le pareti dei miei pensieri. Torno in soggiorno e alzo la cornetta di un telefono che però non emette alcun suono. Certo, non c’è linea, nessuno ha abitato in questa casa da tre anni e di conseguenza nessuno si è preoccupato di pagare la bolletta.
Allora mi precipito in strada. I bambini, nel frattempo, stanno continuando a giocare. Quelli che sono stati scoperti dal ragazzino con i calzoncini arancioni incitano gli altri a rimanere ben nascosti nei loro anfratti, mentre il cercatore si affanna qua e là nel tentativo di localizzarli. Annaspando, raggiungo una cabina telefonica. Fa molto caldo, rivoli di sudore scorrono giù dalla mia fronte, ho le palpitazioni. Devo calmarmi un momento. Nel frattempo, cerco di riportare alla memoria il suo numero di telefono.
Ci siamo. Squilla. Resto in attesa.

– Pronto?
Dio santo, quella voce.
– Pronto? C’è qualcuno?
– E-ehi, pronto, Alessia? Sono io.
– Scusi, io chi? Non la riconosco.
– Sono io, Mattia.
– … Cazzo, non è possibile.
– Ciao, Alessia. È tanto che non ci sentiamo.
– Eh già, è tanto che non ci sentiamo.
– Ho finito di scontare la pena. Sono fuori da due ore.
Qualche istante di silenzio. Mi sembra di avvertire un sospiro, il rumore di qualcosa che si rompe.
– … Wow, incredibile! Sei un uomo libero adesso? Pensavo che ci saresti rimasto per sempre, lì dentro. Sai, non so, avresti potuto ammazzare qualcuno, un secondino, un compagno di stanza. Potevi tagliargli la gola nel sonno, oppure cercare di evadere; no? Avresti anche pot
– Ehi, ehi, calmati, dai.
– No! Calmati un cazzo! Si può sapere cosa vuoi da me ora? –. Le sue urla si mescolano a singhiozzi convulsi che scuotono perfino l’altoparlante della cornetta, facendola vibrare. – Mattia, devi sparire dalla mia vita, perché me l’hai già rovinata abbastanza. Non voglio mai più sentirti, hai capito? Mai più.
– Alessia, sono solo.
– Eh?
– Sono completamente solo. Non so che fare, non so dove andare. Ho bisogno di una voce conosciuta con cui poter parlare.
– E che cosa diavolo vuoi da me, Mattia! Io per te non esisto più, hai capito? Vuoi degli amici? Chiama quelle teste di cazzo con cui ti vedevi prima di essere arrestato.
– Alessia
– No, Mattia, no. Non funziona così. Non hai proprio capito. Io non sono più niente per te, chiaro? Basta, la cosa finisce qui. Non sono un’amica, non sono una confidente, non sono quella che viene a raccoglierti dalla strada perché non sai dove andare. Problemi tuoi. Se vuoi degli amici torna da quegli stronzi, tornate a spacciare, a fare rapine, quello che vi pare. Lasciami fuori dalla tua vita di merda.
– Io vorrei soltanto parlare.
– Non puoi parlare con me, non abbiamo niente da dirci. Sei uscito di galera, hai la possibilità di cambiare. Cresci, cerca di diventare un uomo. Fallo per te stesso. Ora, però, ti prego, finiamola qui. Non so quali siano i tuoi sentimenti nei miei confronti, non so se mi vuoi bene. Se è così, ti scongiuro, non rovinarmi di nuovo la vita. Sto riattaccando, Mattia. Buona fortuna.

Buona fortuna, dice, lasciando morire le ultime sillabe con il ‘click’ della cornetta riagganciata. Un senso di profonda amarezza mi assale, mentre apro le porte a vetri della cabina e accendo un’altra sigaretta. Penso nuovamente a quella dannata mattina di cinque anni fa, quando due carabinieri di grossa taglia bussarono alla porta di casa mia con un mandato d’arresto. Alessia era lì, mentre quelle braccia mi trascinavano fuori, nello sgomento generale dei vicini.
Del resto, sai, ti capisco.
Ricordo i discorsi che facevamo quando studiavamo all’università: tu volevi diventare avvocato e difendere i cattivi in tribunale, lo sapevi, ce l’avevi già scritto tra le pieghe del sorriso. Io, beh, non ho mai pensato davvero a cosa fare, ho sempre lasciato che la corrente mi portasse con sé perché ero convinto che da qualche parte, prima o poi, mi sarei arenato. Chi avrebbe immaginato che sarei finito dall’altra parte della barricata, Alessia – e nel pensare al tuo nome mi sfugge un altro sorriso. Sono arrivate le classiche compagnie sbagliate. Ho cominciato a spacciare droga perché per me era un’attività come un’altra, forse un modo semplice per fare soldi, lontano dalle infernali e vuote responsabilità della vita lavorativa. Credevo che un giorno sarebbe semplicemente finita, che sarei uscito dal giro proprio come scoppia una bolla di sapone: all’improvviso. Poteva succedere di tutto: un annuncio sul giornale, un cartello attaccato alla vetrina di un negozio, e avrei potuto realizzare il sogno dei miei genitori che volevano fossi una persona normale, un individuo perfettamente integrato, realizzato.
L’ho saputo dopo che fosti tu a denunciarmi, Alessia.

Attraverso il parco, camminando lentamente, e mi siedo su una panchina. C’è un rumore nell’aria, un gorgoglio limpido di macchine che passano, voci di bambini, vento, lo scricchiolio delle assi di legno su cui ondeggiano frenetiche due altalene. È uno sciabordio urbano, qualcosa che fa pensare immediatamente all’estate. Tiro fuori dalla tasca il foglietto che il brigadiere De Marco ha infilato nel mio giubbotto: cosa farò adesso? Dovrei chiamare quel numero?

Un’anziana e minuta signora, probabilmente la nonna di uno dei bambini coinvolti nel gioco, chiede di potersi sedere vicino a me. È stanca e ha la fronte imperlata di sudore.

– Vede, quello è mio nipote –. Punta il dito verso un ragazzino che tenta di scalare la lunga rampa di metallo di uno scivolo. – Vuole stare sempre da solo, non capisco perché fa così. Non si integra con gli altri. Cerco di spronarlo a socializzare, ma non ne vuole sapere. Ogni volta che provo ad avvicinarlo a qualcuno tenta sempre di scappare via, chiedendo di tornare a casa. Sono molto preoccupata.
– Non se ne preoccupi, signora, lasci che faccia come vuole. Ognuno si avvicina alle cose a modo proprio. Troverà da solo la sua strada, e può essere che all’inizio sia proprio come sta facendo ora con lo scivolo: salirà dalla parte sbagliata. Ma non importa, non è questo il punto. La cosa che conta è arrivare in fondo, anche a costo di fare un casino dietro l’altro. Verrà il momento in cui si renderà conto di aver imboccato la strada sbagliata: allora forse si sentirà stupido, inadeguato; forse gli altri lo allontaneranno, ma non importa neanche questo, perché se si comporterà in maniera onesta e sincera riuscirà comunque ad arrivare in fondo.
Ovviamente è a me stesso che sto parlando.
La signora mi guarda in maniera piuttosto scettica, facendo cenno di sì con la testa.
Resto ancora un po’ a lasciarmi abbracciare dal calore della ritrovata libertà, poi mi alzo, torno alla cabina telefonica, compongo il numero scritto nel biglietto di De Marco. Ci siamo, Mattia, proviamo a risalire di nuovo, questa volta dalla parte giusta.

Ivan Bececco

 

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