Racconti d'autore

L’età adulta e io

Scritto da Ivan Bececco

È come attraversare un confine, oltrepassare la soglia di una casa che, fino a un istante prima e per molto tempo, avevi osservato da fuori, con gli interni sempre chiusi e occultati da tende scure.
Il passaggio dall’università all’età cosiddetta “adulta” è un biglietto del super enalotto gettato al macero di una pozzanghera dopo che ha perso ogni suo significato. Te ne accorgi quando, con la lentezza di una crisalide in attesa di diventare farfalla, il tuo sguardo sul mondo comincia a cambiare: passeggi per le vie di una città che conosci da una vita e, ecco, di colpo nuovi dettagli catturano il tuo sguardo, suscitandoti sensazioni stranianti. Una crepa sull’asfalto, l’inchiostro di una bomboletta spray spalmato su un muretto, lo svolazzo di una foglia secca.
Te ne accorgi quando combini un appuntamento con un amico che non vedevi da un po’. Una persona con cui sei sempre stato in empatia e hai avuto il privilegio di confrontarti su tutta una serie di questioni care al mondo accademico: il significato della vita, l’anticonformismo, i gusti del gelato. Te ne accorgi, soprattutto, quando il viso di quella persona si trasforma in una sorta di specchio, dove puoi osservare lo stesso tipo di rughe, sottili e irregolari, che incidono le tue tempie mentre sorridi.
Vi ritrovate a camminare, una domenica di metà maggio, nella piazza principale del centro città. Il sole tiepido si imprime sulla pietra che lastrica la strada. C’è gente, perlopiù si tratta di ragazzi che bazzicano davanti alle pizzerie, alle gelaterie, ai negozi di abbigliamento a buon mercato. Il resto sono uomini e donne cosiddetti “adulti” che portano a spasso il cane e scambiano quattro chiacchiere con certi conoscenti incontrati lungo la via.
Vi aggiornate sulle vostre vite; d’altronde non vi vedevate da un pezzo e la chat dello smartphone non aiuta certo a tenersi in contatto, per quanto balloon colorati e faccine preconfezionate abbiano quasi del tutto soppiantato l’antico modo di conversare.
– Allora, come vanno le cose? Com’è il tuo nuovo lavoro da ***?
– Mah, sai, tempo fa hanno deciso di adottare un nuovo sistema gestionale e, nel passaggio dal vecchio all’attuale software, stiamo attraversando un periodo di transizione in cui c’è da fare ben poco. Ci si annoia un po’, ma in fondo va bene così. E da te?
– Da me si procede più o meno come al solito: per qualche strano motivo, nonostante l’era digitale, la gente continua ad apprezzare gli articoli di cancelleria e viene a fare incetta di quaderni, penne, evidenziatori che finiranno ad ammucchiarsi dentro un cassetto.
– Dai, quando lo scrivi questo benedetto romanzo?
– Eh, il romanzo… Sì, ogni tanto mi frullano delle idee, ma niente di abbastanza solido. E poi mi manca il tempo. Non sono mai stato un tipo da romanzi, io, anzi non capisco come facciano gli scrittori a riempire più di cinquanta pagine intrecciando personaggi, piani narrativi, digressioni, flash-forward, quelle cose là. Troppa roba.
– Va be’, dai, sono certo che un giorno ti verrà una buona idea e i paragrafi si susseguiranno da sé, senza particolari intoppi.

Vi accostate al tavolo di un bar gremito di gente. I baristi si fanno in quattro per esaudire le richieste della clientela domenicale, desiderosa di gustare un ottimo caffè in vetro, basso, lungo, macchiato, americano, spolverato di cacao o cannella, a seconda delle preferenze.
– Tu intanto siediti, io ordino qualcosa.
(Buonasera, un’aranciata, grazie. Quant’è?)
– Ok, eccomi. Dicevi? Con Matilde è proprio finita?
– Beh, sì, le cose avevano cominciato a prendere una brutta piega da un pezzo: litigavamo ogni giorno, perché a lei non stavano bene molte cose del mio carattere. Sono troppo lento a prendere una decisione, a detta sua. Ma dai, le dicevo, la convivenza è una cosa seria, siamo fidanzati a malapena da due anni e credo sia legittimo volerci pensare un po’, prima di fare un passo tanto impegnativo. Ma allora dillo che non mi ami davvero, mi ha risposto un giorno, più o meno una settimana prima che ci lasciassimo; dillo che non ti senti così coinvolto nella nostra relazione, altrimenti non ti porresti il problema. Guarda Carlo e Luisa, stanno insieme da poco più di noi e progettano in tutta serenità di cercare un monolocale. Proprio non lo capisco: cos’è che ti spaventa, esattamente?, incalzava.
– Sì, Matilde ha sempre avuto quel modo un po’ singolare di enfatizzare certe parole.
– Vero? Poi è saltato fuori che le pesavano i miei turni di lavoro. Torni sempre tardi la sera, non c’è verso di stare insieme. Sai quante volte me l’ha detto nell’ultimo periodo?
– Senti, in tutta franchezza, credo sia andata meglio così. Per entrambi, dico. È inutile stare a torturarsi se non si va d’accordo. Ma dimmi: come stai? Come ti senti?
– In realtà bene; cioè, no, non bene, è che lavorando tutto il giorno non ho praticamente tempo di pensare a quello che succede al di fuori delle pareti del mio negozio. Ieri sera Matilde mi ha mandato un messaggio per avvisarmi che sarebbe venuta a prendere le sue cose, ma ho dovuto dirle di farmi sapere quando avrebbe intenzione di passare, perché devo capire quali sono i miei orari della prossima settimana. Ti giuro, mi veniva da ridere mentre scrivevo la risposta, immaginavo già la sua faccia nel leggerla.

Nel frattempo, mentre gusti l’aranciata e studi il disegno delle rughe laterali del tuo amico per capire come stanno sul tuo volto, ti accorgi della gente che transita accanto al vostro tavolo, lenta e composta. I ragazzini frequentano le vie principali del centro solo di domenica, aspettando l’ora di cena e addolorandosi perché il giorno dopo si torna tra i banchi di scuola; durante i giorni feriali, invece, vanno a consumare la loro adolescenza in luoghi appartati, traverse, vicoli ciechi. A quest’ora, vicino alla cattedrale, intorno alle panchine e alle fontane pubbliche, rimanete solo voi due e gli altri, i cosiddetti “adulti”, dai quali un tempo rifuggivate ma con cui adesso iniziate a entrare in confidenza, a condividere spazi e orari. Il sole si abbassa all’orizzonte, ed è nel momento esatto in cui la luce crepuscolare interseca le pupille stanche di quel signore laggiù che ti accorgi di capirlo. Non hai bisogno di conoscere i dettagli della sua vita privata per renderti conto che siete diventati parte della stessa squadra. Non hai bisogno di alzarti dalla sedia e andare da lui e dirgli: signore, io la capisco. Prima la criticavo, essendo intimamente convinto che la sua vita fosse una merda, sempre sottotono, un continuo affaticarsi a sezionare il tempo per distribuirne la giusta quantità tra i vari impegni; e poi i conti da far quadrare, le spese per l’affitto o il mutuo, chissà; e le due settimane di ferie estive da convertire in apatiche sessioni di abbrustolimento al sole di qualche località turistica. Io e quel ragazzo laggiù che siede al mio stesso tavolo, lo vede?, insieme ad altri come noi, mentre preparavamo gli esami universitari ci ripetevamo il mantra di non diventare come voi, gente strana, alieni vestiti bene, borghesi, capitalisti, conformisti.
Ecco. Non hai bisogno di andare da lui, perché lui lo sa già, ti ha già visto e ha riconosciuto il se stesso di trenta o quarant’anni fa, mentre usciva di casa sbattendo la porta in faccia a suo padre che lo rimproverava di non avere i piedi per terra.

Finisci l’aranciata e ascolti il tuo amico che, nel frattempo, è passato a raccontarti di aver pubblicato un annuncio su una pagina Facebook di affitti perché ha intenzione di cercare una nuova sistemazione. I costi sono troppo alti e i coinquilini degli insopportabili casinisti.
– Ehi, è tardi, mi aspetta un’ora di macchina per tornare a ***, stasera ho un appuntamento con un tipo interessato alla stanza. Speriamo bene.
Ti accorgi di aver oltrepassato la soglia dell’età cosiddetta “adulta” quando, dopo averlo salutato e avergli strappato la promessa di rivedervi presto, guidi verso casa tenendo i finestrini abbassati – cosa che, immancabilmente, più di ogni altra segna l’inizio dell’estate – e ascolti un vecchio CD che avevi masterizzato forse sei o sette anni fa, cantando a memoria intere strofe di un pezzo che ti è rimasto dentro, impresso come il marchio rovente sulla pelle di un capo di bestiame.
Mentre ingoi la pillola di tutti i ricordi associati a quel ritornello, chiedendoti se davvero diventerai come quel signore e dovrai imparare a suddividere il tuo tempo sempre più minuziosamente (perché l’adolescente che è in te fa resistenza, non cede all’idea di sedersi in panchina e osservare la partita da semplice spettatore), qualcosa cattura il tuo sguardo, ti spinge a rallentare e a voltare la testa: il sole del tramonto che si spande sulla chioma di un vecchio albero di pioppo, solo in mezzo alla modesta distesa di verde di un parco pubblico. Rallenti ancora, abbassi il volume dell’autoradio, ascolti il fruscio del vento intervallato dai rumori dei veicoli che transitano nella corsia opposta alla tua.
Ai piedi dell’albero c’è una panchina, sulla panchina siede una mamma che osserva il figlioletto giocare con un camioncino di plastica. Parcheggi lungo la strada. Il bimbo si diverte a spingere le ruote del suo mezzo avanti e indietro tra le crepe della terra asciutta. Lo senti gridare, perso in una sua fantasia, immaginandosi di essere un capocantiere (parola tua, sconosciuta al suo vocabolario) impegnato a dirigere certi lavori di costruzione: “Tu, tu e tu! Scaricate la terra laggiù!”, e punta il dito in direzione di una massa di zollette polverose, ammonticchiate poco più in là. “Il castello deve essere completato prima di cena, perché la principessa verrà ad abitarci domani! Non si preoccupi, maestà”, dice rivolto alla mamma che non riesce a trattenere un sorriso, “entro domani il suo castello sarà pronto”. E lei, infinitamente bella e stanca come solo le principesse-mamme sanno essere al termine di una lunga settimana, risponde: “Per caso il signor direttore dei lavori ha fame e vuole andare a cena? Può sempre tornare dopo in cantiere”. Il bimbo, segretamente stanco anche lui, ci pensa un po’ su; alla fine raccoglie il suo camion e si avvia verso casa tenendo la madre per mano. Il mucchio di terra resta lì, abbandonato alle giravolte del vento.
Osservi la scena e all’improvviso riconosci il te stesso di vent’anni fa, mentre metteva in fila la sua splendida collezione di macchinine lungo i bordi del tavolo del soggiorno.
Ecco il punto di congiunzione tra le varie soglie, collegate dallo stesso sentiero che troppo spesso hai creduto di dimenticare, solo perché la vita non ti permette di guardare indietro se non attraverso le lenti, appannate e distorte, del ricordo. Riaccendi il quadro della macchina, rimetti in moto e parti, mentre l’ultimo raggio di sole si affretta a cedere il posto alle luci dei lampioni.

Ivan Bececco

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