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La rivoluzione cieca

Scritto da Ivan Bececco

La mia natura di studente pendolare mi porta a viaggiare in autobus quasi ogni giorno. Una striscia d’asfalto lunga più o meno 70 chilometri divide la mia casa dalla città in cui studio. Il tragitto è lungo e noioso, una cantilena fredda, dove le note occupano sempre lo stesso posto nel pentagramma.
La distanza, il rumore di fondo, l’odore di gomma bruciata tipico degli autobus (che d’inverno, chissà perché, si fa più intenso), lo stare immobili su di un sedile ad aspettare che il mezzo arrivi a destinazione, sono i demoni contro cui combattono i passeggeri, ognuno a modo proprio: alcuni riescono a dormire, altri sfogliano il giornale, altri ancora – la maggioranza, a dire il vero – ricorrono alla magia: estraggono un oggetto solido di dimensioni rettangolari che sembra rispondere alla loro volontà; si illumina all’improvviso, vive.
Lo padroneggiano con maestria, questo lingotto di plastica opaca. Le dita danzano sullo schermo luminoso e spalancano le porte verso un’altra realtà, o meglio, una serie di realtà complesse ed eterogenee: le principali notizie dal mondo, Facebook, YouTube, carrellate di foto e immagini animate che scorrono impetuose e selvagge come una cascata, senza mai straripare dai bordi di questi manufatti magici. Restano tutti immobili e incantati a osservare lo spettacolo, gli occhi investiti da un fascio di luce diafana. Alcuni scrivono, digitano ammassi di parole intervallate da facce stilizzate, cuori, animali.

Un mattino d’autunno di qualche anno fa ero seduto dietro ad uno di questi avventori. Teneva stretto nel pugno il proprio talismano luminoso, che proiettava davanti alla sua – e alla mia – faccia il video di un gatto intento a tenersi su con le zampe posteriori, suscitando grasse risate fuori campo. Sorrideva anche lui, stregato dalla magia. Fuori scendeva una pioggia lieve, accarezzava i finestrini e si scomponeva in una serie di strie d’acqua lungo il vetro.
Qualche tempo dopo, voltando la testa verso il tizio davanti a me, mi accorsi che aveva gli occhi chiusi: le sue palpebre erano sigillate da due spesse croste e collegate all’oggetto magico tramite una serie di filamenti luminosi. Anche il resto del corpo era intrappolato nella medesima sostanza bianca, simile a seta grezza, tanto che all’apparenza aveva l’aspetto di un gigantesco bozzolo deforme. Non uno degli altri passeggeri parve accorgersi di quell’orrenda e improvvisa metamorfosi, poiché tutti tenevano il capo religiosamente chino sui loro amuleti magici.
Sebbene anche le mani del tizio fossero avvolte nella vischiosa sostanza, tenevano ancora ben saldo il rettangolo nero che continuava a proiettare immagini di gatti. Mi parve che il nucleo luminoso, pian piano, stesse cominciando a dilatarsi, succhiando energia vitale dalla carcassa inerte del suo padrone. In effetti, la massa corporea di quest’ultimo iniziò a restringersi, dapprima impercettibilmente e poi in maniera sempre più evidente: le braccia si asciugavano, le gambe avvizzivano, mentre il grumo si estendeva in tutte le direzioni fino a risucchiare anche il talismano incantato.
In breve, dell’uomo non restarono che gli indumenti, liberi di nascondersi, sospinti dalle sollecitazioni dell’autobus, sotto il sedile.
Dopo qualche minuto l’ammasso di bave bianche si schiuse, producendo un rumore liquido. Dal guscio rotto si affacciò l’oggetto rettangolare: la sua forma era rimasta intatta, ma aveva sviluppato un paio di ali meccaniche che faceva sventolare con eleganza, potendo in questo modo tenere il corpo librato a mezz’aria.
Solo per pochi attimi l’essere si lasciò contemplare dai miei occhi, poiché sfruttò l’apertura improvvisa delle portiere pneumatiche dell’autobus per volare via, lontano dal mio campo visivo. Eravamo giunti al capolinea.
Il veicolo aveva arrestato lentamente la sua corsa, andando a spiaggiarsi lungo il bordo sinistro di un’ampia strada, con il passo pesante e affannoso di un vecchio orso che abbia catturato l’ultima preda della sua vita.
Gli altri passeggeri, accortisi di essere arrivati a destinazione solo perché il movimento era cessato, rialzarono la testa e misero in tasca i loro amuleti magici. Uno sbadiglio riverberò all’interno dell’abitacolo.
Fuori aveva smesso di piovere. Una sola macchia di azzurro tenue piagava il cielo ovunque grigio, ma una grossa nube dai contorni sfumati sarebbe presto intervenuta a sanare la ferita.

 

Ivan Bececco

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