Attualità Cultura e società

Frontalieri italiani? Il no degli svizzeri!

Scritto da Maria

Alzarsi la mattina ed espatriare – attraversando la propria terra – per lavoro, sia che quest’ultimo si abbia, sia che si cerchi solamente. No, non è come immaginate. Non stiamo per raccontarvi vicende trite e ritrite di italiani del Sud in viaggio verso le capitali del Nord. Qualche decennio è trascorso a parlare delle migrazioni endogene, pertanto immaginiamo che forse questa non sarebbe una trovata originale. Quella che vi raccontiamo oggi è invece una storia diversa, quella dei frontalieri, e, come tutte le storie che si rispettino, la proponiamo perché sicuri che vi saprete attribuire una “morale”.

La scorsa settimana, è salito all’onore delle cronache un tale, Giancarlo Dormizzi, titolare della società di intermediazione assicurativa “Dormizzi & Co.”, di Montagnola in Canton Ticino (Svizzera). La fama pare essersela guadagnata per la scelta di offrire due posti di lavoro, nella sua azienda, con possibilità di assunzione, ad aspiranti dipendenti che dovevano avere tra i requisiti il non essere “frontalieri”. Per quanti di voi si stessero chiedendo chi siano i frontalieri vi diamo la risposta: persone residenti in una zona di frontiera che ogni giorno passano il confine per andare a lavorare. Nel caso in questione, frontalieri sono i circa 50.000 lombardi che attraversano quotidianamente il confine per lavorare in Canton Ticino. Come a dire gli italiani no! E sì perché ironia della sorte in Carton Ticino i lombardi che espatriano per cercare lavoro in terra elvetica non sono ben visti. Indovinate perché? Perché vanno a rubare il posto di lavoro agli svizzeri. L’intolleranza verso questi italiani truffaldini è diventata tale che la Lega Ticinese, forse una lontana cugina della Lega Nord, ha progettato un muro alto 4 metri e lungo 25 km per separarsi da quella che chiamano “Fall-Italia” – chissà quale dei due partiti avrà chiesto i diritti d’autore all’altro. Si è poi scoperto, per dichiarazione dello stesso Dormizzi – badate bene, italiano a sua volta, ma residente in Canton Ticino, dopo essere sopravvissuto alla diffidenza dei suoi concittadini – che il requisito richiesto agli aspiranti lavoratori non era dettato da una discriminazione verso i lombardi, ma dal fatto che, secondo la legislazione elvetica, per poter stipulare polizze assicurative il dipendente deve avere una certificazione specifica rilasciata solo ai residenti.

Quanti, dunque, stavano già inorridendo all’idea di essere così vilipesi possono ricomporsi.

C’è da dire, però, che l’insofferenza nei confronti dei frontalieri è reale, che essi non sono ben visti perché sottrarrebbero lavoro ai ticinesi, ticinesi che in questo momento di crisi si trovano a gestire 20.000 disoccupati e che non tollerano la presenza italiana, perché aggrava la loro situazione. Gli italiani, infatti, si accontenterebbero di paghe inferiori e non storcerebbero il naso di fronte a lavori considerati meno “nobili”.

Ed eccoci al momento della morale, degli interrogativi, se volete delle riflessioni.

Alcuni staranno pensando che il “sugo” della storia è che “c’è sempre qualcuno più al Nord di altri”, forse i nostri lettori meridionali, abbozzando un sorriso, chioseranno con un bel “chi la fa l’aspetti”. E invece no! Torniamo seri!

Il progresso dei popoli è sempre stato nell’incontro con l’altro, il confronto con una cultura diversa ha messo in moto le menti per emulare, per superare, se volete. Gli inizi forse non sono stati pacifici, ma i risultati hanno migliorato autoctoni e immigrati. Ma la storia non è una materia assai amata e soprattutto è una di quelle con le quali o senza le quali tutto rimane identico, dev’essere per questo che continuiamo a essere poco originali persino nel terzo millennio… Talmente poco originali che i napoletani pendolari verso Roma vengono guardati male, che i meridionali al Nord vengono etichettati, che gli extracomunitari sono il “nemico” per tanti italiani, che gli italiani all’estero sono ladri ingordi di lavoro. E potrei continuare. Ma mi fermo. Mi fermo, perché voglio concludere con una considerazione diversa. I momenti di crisi non sempre sono negativi o almeno non lo sono in toto. Potrebbero, visti dall’alto, essere un’opportunità di cambiamento, un’occasione per mutare rotta, per modificare i meccanismi che hanno generato certe difficoltà, visti dal basso, invece, un modo per cercare l’essenziale, per apprezzare le conquiste di ogni giorno, per essere vicini a chi ne ha bisogno, per riscoprire il senso di parole come solidarietà e comunità.

Non è di tensione sociale e di diffidenza che abbiamo bisogno, ma di collaborazione. Oserò di più: mondiale non dovrebbe essere la crisi, ma i sistemi di contrattualizzazione. Quest’idea, e solo quest’idea, che è mera utopia, permetterebbe la fine di una guerra tra poveri, tra persone la cui unica responsabilità è quella di voler migliorare le proprie condizioni di vita. È forse questa la colpa che genera tanta ostilità?

Maria Mancusi

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